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Riflessioni sulla zona di comfort

Ragazza che mangia un panino in attesa all'aeroporto

 

Da quando vivo in Giappone mi sono sentita dire più volte “Tu sì che sei fuori dalla zona di comfort!”. E allora mi sono messa a pensare se davvero fosse così.

Definizione di “zona di comfort”

“La vita comincia dove finisce la tua zona di comfort” cit. Donald Walsch

Cazzate. La verità è che “La vita comincia dove si friggono le olive“. Se non avete mai mangiato le olive fritte non capirete di cosa sto parlando e deduco che siate delle persone ignare del vero senso della vita.

Comfort zone

Comfort zone

La zona di comfort, come dice il nome stesso, è tutto ciò che vi fa sentire a proprio agio: per alcuni può essere lavorare sempre a contatto con altre persone, per altri è frequentarsi sistematicamente con i propri amici, per alcuni è vivere in un luogo dov’è tutto a portata di mano, eccetera.

La zona di comfort non ha nessuna definizione specifica: è piuttosto un fattore puramente soggettivo e variabile nel tempo.

Vuoi un cambiamento? Crealo.

Quando vivevo in Italia lavoravo in un piccolo studio e ogni giorno vedevo le stesse persone, anche guardando fuori dalla finestra dell’ufficio. Forse ricordo anche le targhe delle automobili. Scherzo. O forse no.

Nel fine settimana uscivo con i miei amici nei pochi, stessi locali, spesso ritrovandomi a parlare di argomenti simili con le stesse persone incontrate pochi giorni prima. Ero lì, nel posto in cui sono nata, con la mia famiglia ed i miei amici. Eppure non mi sentivo più a mio agio.

Non riuscivo più ad apprezzare ciò che avevo. Quella che prima era la mia zona di comfort, in realtà non lo era più.

Ed arrivò il giorno in cui pensai che dovevo andarmene. Sul serio, volevo proprio scappare. Non avevo grandi sogni e nemmeno solide realtà. Così, creai questa occasione per trasferirmi per un tempo a Barcellona.

Post di Facebook

Barcelona mola más

Con la scusa di un Progetto Leonardo, cambiai la destinazione della borsa di studio dalla Lituania alla Spagna. Se volete delle spiegazioni sul perché, andate a guardavi le temperature medie annuali. In Lituania fa un freddo nero. Ma che siamo matti.

Arrivai a Barna con un volo Ryanair in ritardo, in una piovosa notte di fine marzo. Parlavo uno spagnolo pessimo – sei mesi di Erasmus a Valencia erano stati all’insegna dell’italianità – non conoscevo nessuno e due coppie di connazionali mi avevano fregato l’ultimo taxi. Vaya.

Ricordo che andai a dormire in un’ostello durante la prima settimana mentre cercavo casa. E fu lì che pensai “finalmente”. Ma “finalmente” cosa? Stavo dormendo nella stessa stanza con gente che non conoscevo – tra cui uno che russava tantissimo – e con cui non sapevo come comunicare, in una città in cui non conoscevo nessuno. Inoltre era mezzanotte e mi ero accorta di aver dimenticato spazzolino da denti. Maldita sea! Eppure, dentro la mia testa… ero contentissima. Sapevo che dal lì in poi avrei conosciuto gente nuova, migliorato un’altra lingua, fatto delle simpaticissime figure di merda – soprattutto quelle – e chissà che altro. Da lì in poi sarebbe stato tutto una novità. Questo, nella realtà precedente, non potevo farlo.

Dopo alcuni mesi vennero i miei a trovarmi. La città mi piaceva tantissimo, avevo conosciuto molte persone ed ero contenta. Il mio progetto, però, era terminato e sarei dovuta tornare in Italia. Solamente l’idea mi spaventava. “Piuttosto mi cerco un lavoro da cameriera!” dissi ridacchiando a mia madre, che nel frattempo mi immaginava nelle mie disastrose imprese con il vassoio in mano. Lo dissi scherzando ed invece lo feci per due anni. E, sì, all’inizio con il vassoio fu un incubo.

Ci sono stati alti e bassi, ma il mio trasferimento a Barcellona mi è servito davvero.

Konfōtozōn (コンフォートゾーン)

Dopo tre anni in Spagna uscì fuori questa possibilità di trasferirsi in Giappone. All’inizio pensai “seee, vabbé, come no”. Mi sembrava un’idea campata in aria, un po’ come il reddito di cittadinanza in Italia. Dopo qualche mese eccomi lì, all’ambasciata giapponese, a riprendere il mio visto (a proposito, leggi Come ottenere il visto per il Giappone).

Quando l’idea era in ballo mi spaventava la lontananza fisica – insomma, sono davvero dall’altra parte del globo – e soprattutto alcuni eventi familiari che, di lì a poco, mi sarei persa. Ma il trasferimento in sé o una nuova vita da zero non mi hanno tirata indietro. Anzi. Erano passati gli anni ma la mia zona di comfort era ancora quella ricca di avventura.

Vivere in Giappone è una grande prova: le differenze di comunicazione, lo stile di vita (leggi La terribile ora punta nella metropolitana di Tokyo), tutto ciò che sono le “buone maniere”, sono aspetti che si assimilano molto lentamente. Non è stato tutto facile, sono Franca (ma pur sempre Veronica). Il nome di questo blog lo dice todo.

Conclusioni personali

Il succo di questo articolo è: in realtà mi trovo proprio nella mia zona di comfort, al contrario di quello che pensano gli altri. Mi spaventa l’idea di non essere capace di riadattarmi a vivere nel posto da cui provengo, quella che nel frattempo non è più la mia zona di comfort.

Di frequente mi sono ritrovata a fare questo tipo di discorsi con altre persone che vivono la mia stessa situazione. Ci sentiamo tutti “drogati” di questi trasferimenti e nuove vite: una volta che inizi senti che non riesci a smettere.

Attualmente ho amici di ogni parte del mondo – letteralmente – e continuo a conoscere nuove persone che apportano il proprio contributo culturale alla mia testaccia italiana.

Ho scoperto che: la Mongolia è un posto interessantissimo da visitare, lo Sri Lanka non ha nulla a che vedere con l’India, i coreani hanno un carattere molto simile al nostro, il visto più potente al mondo è quello di Singapore, in Brasile cantano “Ma come si mangia la bella polenta” – molti italiani durante la guerra vi si sono trasferiti e l’hanno tramandato ai propri figli – parecchi giapponesi vivono in Sud America, la Turchia ed il Giappone si sono aiutati in diverse vicende diplomatiche, quando i cileni parlano spagnolo non si capisce un cazzo e i francesi stanno sulle palle a tutti, anche a quelli della Nuova Zelanda.

E la realtà è che non sono più la Veronica di cinque anni fa: adesso sono Beronika.

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